Giotto di Bondone

Bottega di Giotto di Bondone (Vespignano, 1267 circa – Firenze, 1337)

Crocifisso 1305-1320 circa, Collezione Roberto Sgarbossa

La Croce dipinta presenta nelle tabelle alle estremità dei bracci i dolenti, la Madonna a sinistra e Giovanni Evangelista a destra, testimoni chiave della morte redentrice di Cristo, e nella cimasa il Pellicano mistico che si lacera il petto per nutrire i piccoli col proprio sangue, simbolo del sacrificio di Gesù e dell’amore di Dio per i suoi figli. Si tratta a tutti gli effetti di una derivazione in scala ridotta della monumentale Croce (tavola, 432 x 343 cm) attribuita a Giotto conservata nella chiesa di San Felice in Piazza a Firenze (che subì la riduzione del riquadro inferiore, tagliato al di sotto del suppedaneo). L’autografia della Croce fiorentina, ritenuta da parte della critica una notevole opera della bottega e assegnata anche a quel collaboratore del maestro ribattezzato da Giovanni Previtali il ‘Parente di Giotto’ (la cui effettiva esistenza è stata poi messa in dubbio da alcuni studiosi), venne rivendicata nel 1967 da Carlo Volpe, il quale, valutandola di “solenne prima maturità”, la collocò cronologicamente attorno al 1307- 08, dunque dopo la decorazione della cappella dell’Arena di Padova (detta degli Scrovegni), consacrata il 25 marzo 1305, e prima della Croce del Tempio Malatestiano di Rimini, nella quale il maestro arricchì la sagomatura e abolì il motivo arcaico del suppedaneo sporgente.

L’autografia giottesca è stata confermata recentemente da Miklos Boskovits (2000), secondo il quale la Croce di San Felice in Piazza, assieme alla Madonna col Bambino in trono, angeli e santi, detta Maestà di Ognissanti (Firenze, Galleria degli Uffizi), testimonia probabilmente “l’attività dell’artista, rientrato a Firenze dopo gli impegni a Padova, verso il 1306- 07”. Secondo lo storico dell’arte ungherese “insieme con la Maestà degli Uffizi, è questa possente figura a proporre, ma con un linguaggio ancora più coerentemente classicheggiante, le affinità più strette con il ciclo della cappella dell’Arena”. Già nel Crocifisso di Santa Maria Novella a Firenze, databile attorno alla metà dell’ultimo decennio del XIII secolo, Giotto espresse la sofferenza dell’uomo e la morte del corpo attraverso la rappresentazione di un nudo, studiato dal vero, che grava verso il basso. A distanza di anni, nell'esemplare di San Felice in Piazza si coglie una significativa maturazione formale: come notava già Luigi Coletti (1936-1937) nella figura “rimane ancora il girare del torso, ma oramai quasi impercettibile. Il senso di peso inerte è ridotto al cenno necessario e sufficiente del modico piegar le ginocchia; il torso eretto e il capo appena reclino, sono composti in una suprema pace che trascende il supremo dolore pur senza cancellarne le amare impronte”.

Lo vediamo anche nell'esemplare qui esposto, opera di notevole interesse - probabilmente uscita dalla bottega giottesca nel corso del secondo decennio del Trecento - che costituisce una preziosa testimonianza della fortuna del modello concepito dal grande maestro, “instancabile innovatore, perfino di fonte a se stesso” (Toesca).