Carlos Solito, A chent’annos

«Ognuno di quei centenari, nelle diverse ambientazioni - in casa, sotto un albero, davanti a una chiesa, su una spiaggia, sotto un portico, davanti a un ulivo, a un acquedotto, a una strada, a una porta, presso le tombe dei giganti, in piedi, seduto, in preghiera, davanti a una scogliera - sembra necessario a quei luoghi, li carica di vita. E di senso. Spesso stanno con il fuoco di un camino, alle spalle, o con una fotografia di famiglia in bianco e nero, avvolti in coperte con ricami arcaici, contro la sagoma di un nuraghe. Per gli uomini, quasi immancabile è il berretto, per le donne il velo nero; e poi, quasi per tutti, eloquenti, le mani nodose, le vene spesse, sempre più simili a tronchi, rami, sassi. Questi occhi che ci guardano, in queste facce segnate, ci dicono che il tempo non si può vincere ma si può accompagnare, fino a confondersi con lui. Per gli altri animali il tempo si nasconde, negli uomini si rivela attraverso i loro volti. A un certo punto il tempo si ferma, non può andare oltre, e quei vecchi sono come le pietre. Queste immagini non ci fanno pensare alla morte ma al volto del tempo, che trasforma i nostri volti, la nostra giovinezza, la nostra maturità, nel suo. Fino a un certo punto si cambia, ci si trasforma, poi si diventa immutabili. Come dire eterni. Non con la morte, ma con la vecchiaia, possiamo ripetere le parole di Giobbe: “expecto donec veniat immutatio mea”. Così questi centenari che vediamo oggi non moriranno mai nella nostra mente. Hanno superato la soglia della morte, e continueranno a vivere nel nostro integro ricordo»

(Vittorio Sgarbi)

 

 

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