Artemisia Gentileschi, Cleopatra

Il dipinto, acquistato a Roma negli anni sessanta, era conosciuto da Roberto Longhi, che lo teneva nella sua fototeca in una cartella sotto il nome di Guido Cagnacci. In quella sede fu visto e restituito ad Artemisia, con felici intuizioni, da Gianni Papi, che ne diede notizia su “Paragone” nel 1994 (Papi 1994, p. 197). Nonostante l’evidenza del riconoscimento, l’opera sfuggì stranamente all’impresa monografica di R. Ward Bissell (Bissell 1999). Lo scrivente individuò l’opera in una casa romana nei primi anni novanta. Offuscata da vernici ingiallite, che ne ammorbidivano la potenza plastica, sembrò poter sostenere la tradizionale attribuzione a Cagnacci, finché una semplice pulitura non la riportò ai caratteri originari di energia e di realismo tipici di Artemisia. La figura femminile, di quasi insolente pesantezza fisica, di sgraziate forme, è elegantemente contenuta da un panneggio rosso di tagliente evidenza, in stretto rapporto con l’algido Orazio. Ma è, appunto, un contrasto, giacché tutto, nella donna, parla di sensi e di sensualità. E non solo, evidentemente, per il peso del corpo, mai così abbandonato, dilagante, neppure nei soggetti più crudi di Caravaggio, ma anche nel volto languido e lascivo. Così che, questa Cleopatra è un paradigma di realismo: la lezione della piena maturità del padre è infatti travolta da un vero e proprio innamoramento per Caravaggio, sia pure senza indulgerne nei soggetti. E anzi con un ribaltamento sessuale. Il corpo ignudo e lascivo è, in Caravaggio, di regola, maschile: dall’Amore vincitore al San Giovanni Battista.

Artemisia, naturalmente, traduce quella ispirazione al femminile. E l’impatto è ancora più forte, più evidente, sia rispetto ai moduli delle Veneri o delle Danae tizianesche (per non dire delle ignude bronzinesche), sia rispetto a quelli più vicini, quando non perfettamente contemporanei, di Guido Reni, di Guercino e dello stesso Orazio. Chi abbia in mente la classicissima Cleopatra di Guercino a Palazzo Rosso di Genova ricorderà un elegante languore, un equivalente pittorico del melodramma. Artemisia ribalta tutto. Il suo realismo è assoluto, imminente, senza nessuna concessione lirica o intimistica. Perfino Caravaggio si mostra più prudente mentre Cagnacci persegue una sensualità intellettuale, sofisticata. Raramente un nudo ha rinunciato nelle forme e nella posa a ogni esterna gradevolezza.
Noi, di questa Cleopatra, sentiamo gli odori, il sudore, la puzza.

Difficile concepire volumi così eccedenti come quelli del braccio e della pancia di una Cleopatra mai meno regale. Una donna e basta, corpo prima che anima, esistenza prima che essenza. Artemisia dipinge il suo manifesto, non di indipendenza psicologica della donna, ma di libertà del corpo, libertà anche di perdere l’armonia. Poi: la testa pensa, soffre. La morte si avvicina, i sensi si abbandonano, la coscienza si attenua. Quasi perdendo i sensi, Cleopatra avverte un dolore lontano. Nel suo corpo e nella sua testa risponde l’animale. Ogni altro quadro dello stesso tempo, a fianco di questo, mostra una grazia, un’intenzione di far quasi dimenticare il gesto estremo, nella misura delle forme, nel deliquio di un’attrice che recita la parte. La Cleopatra di Artemisia è una donna che muore e non ha tempo di pensare all’eleganza del suo corpo, a mostrarsi in ordine.

Il dolore è fisico, non è l’idea del dolore. C’è forse una trasposizione autobiografica in questo volto che ne richiama altri nella pittura di Artemisia. La bellezza di quel volto cede alla smorfia, la lussuria del corpo all’abbandono della carne. Certo non c’è incertezza, non c’è esitazione nel gesto di questa Cleopatra determinata, senza languori e anzi coraggiosa, per nulla femminile. Proprio in questa attribuzione a una donna di nobili attitudini, solitamente riferite al mondo maschile, consiste l’elemento più nuovo del dipinto, che per ciò che riguarda la cronologia, anche per i collegamenti con l’opera di Orazio, dovrebbe avviarsi verso il 1620. Per questo può essere utile un confronto con la Lucrezia della collezione Pagano a Genova (si vedano Garrard 1989, pp. 54-55, 501, da cui dedurre la bibliografia precedente, e la scheda di R. Contini, in Artemisia 1991, pp. 160-162), altrettanto esplicita e superba nel dichiarare la propria virtù ‘extrafemminile’.

(Vittorio Sgarbi)

 

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